Retaggio del comunismo nell'edilizia rumena: Sighisoara (2019)
Girando nelle diverse città della Romania è frequente osservare come il tessuto urbano sia composto da un nucleo centrale della città, non sempre fedele all'origine, ed una fascia periferica, più o meno ampia, caratterizzata dalla presenza di grandi blocchi di condomini intensivi realizzati con tipologie edilizie "standard" e dell'altezza di cinque/nove piani.
E' altrettanto frequente che questi blocchi siano collocati in prossimità di fabbriche industriali a cui sono funzionali per garantire le esigenze abitative degli operai. Il contesto urbano che ne deriva restituisce un'idea di ordine apparente, a cui l'azione del tempo attribuisce un'aria spettrale e dove le condizioni ambientali precarie si toccano con mano, assumendo una conformazione quasi plastica.
E' il caso del quartiere "Baragan", nella periferia di Sighisoara (piccola antica città della Transilvania a forte vocazione turistica), situato in prossimità della ex Fabbrica Stimet, una piccola azienda di produzione ceramica fondata nel 1957 per la produzione di maioliche e la lavorazione del vetro.
Nel 1996 la Stimet fu privatizzata con il metodo PAS - Employee Shareholders Program - che prevedeva che il 40% delle azioni fossero assegnate ai dipendenti associati e il restante 60% distribuito in azionariato privato.
Dopo la privatizzazione la fabbrica è stata oggetto di diversi investimenti speculativi e nel novembre del 2005 è stata costretta ad interrompere la produzione, per decisione del CDA, licenziando i 226 dipendenti formalmente a seguito dei debiti accumulati nei confronti del fornitore di gas, ma, in verità, per non affrontare gli importanti investimenti in ammodernamento tecnologico e risanamento ambientale per cui la fabbrica aveva ottenuto dalla Comunità Europea, una deroga al rispetto dei valori limite di emissione e dei parametri basati sulle migliori tecniche disponibili fino al 31 dicembre 2015. Nel frattempo, le banche rumene avevano sistematicamente rifiutato credito all'impresa nonostante l'esistenza di un importante piano locale per il rilancio economico, la riqualificazione produttiva e lo sviluppo sostenibile della zona.
Le ultime informazioni le acquisiamo leggendo un avviso di dibattito pubblico dell'Agenzia per la protezione ambientale, pubblicato nel febbraio nel 2016 sul "Jornalul Sighisoara Reporter", che ci informa che SC STIMET SA ha avuto incarico di elaborare uno studio di impatto per lo smantellamento dello stabilimento.
Sviluppo urbano in Romania di Gabriel Pascariu: il retaggio del comunismo
Durante gli anni ’70, il regime comunista emanò una legge sulla pianificazione territoriale, che ha avuto notevoli conseguenze sull’uso del suolo e sull’attuale configurazione degli insediamenti rumeni. Questa legge introdusse due principali strumenti di controllo: il primo sulle aree costruite (quanto terreno poteva essere utilizzato per l’espansione urbana); l’altro sulla densità degli edifici e degli abitanti. Il cosiddetto perimetro costruibile (perimetrul construibil) limitava rigidamente l’espansione di qualsiasi insediamento; e, all’interno di questo perimetro, le densità minime di abitanti ed edifici dovevano essere rispettate. Tutti gli insediamenti si dovevano perciò sviluppare entro un’area ben definita, di solito più piccola di quella già esistente.
C’erano anche, sulle tavole di piano, le cosiddette “aree grigie”, cioè aree già costruite e abitate, ma destinate alla demolizione, oppure a un lento deperimento per mancanza di manutenzione: per queste aree non era previsto alcun recupero di strade e infrastrutture esistenti, alcun nuovo edificio o servizio sociale. Gli insediamenti, sia rurali che urbani, dovevano essere costruiti e forniti di tutti i servizi tecnici e sociali soltanto all’interno delle parti “colorate”. L’attuazione delle previsioni di legge ha portato a uno sviluppo “intensivo” degli insediamenti rumeni, per lo più nelle aree urbane e in una serie di villaggi scelti per diventare “nuovi centri urbani”. Lo sviluppo urbano veniva in generale percepito come “verticalità”: i blocchi intensivi di appartamenti non furono comuni fino agli anni ’50, ma nel corso dei successivi trent’anni più della metà della popolazione urbana si trasferì in condomini di altezza compresa fra i cinque e i nove piani.
Gli imperativi delle limitazioni sulle aree da costruire, e quelli sulle densità minime, hanno anche portato in molti casi alla “sostituzione” di parti del patrimonio edilizio esistente, spesso considerato obsoleto e scarsamente rappresentativo. Molte delle nuove città industriali degli anni ’50 e ’60, hanno perduto larghe parti del tessuto edilizio, ma anche un patrimonio urbano di valore, centri storici e monumenti architettonici. L’ultima decade del regime comunista è stata particolarmente aggressiva in tal senso, soprattutto in alcune delle grandi città. Come conseguenza di questi ultimi “assalti”, in alcuni casi non ancora portati a termine nel dicembre 1989, molti paesi e città, come anche alcuni villaggi, si ritrovarono con un tessuto destrutturato e con un territorio urbanizzato in maniera disomogenea.